40enne viterbese abusò della figliastra, pena ridotta in appello, da 5 anni a 11 mesi

Ridotta in Appello a 3 anni, 11 mesi e 20 giorni la condanna di primo grado a 5 anni e 8 mesi inflitta due anni fa a un 40enne viterbese che avrebbe abusato della figlia 16enne della compagna durante il lockdown, come riporta valeria terranova su il corriere di viterbo..

La sentenza dei giudici di secondo grado è arrivata ieri, al termine di una lunga udienza terminata in tarda mattinata, che ha segnato le sorti dell’uomo per il quale a dicembre 2022, davanti al collegio del Tribunale di Viterbo, la pubblica accusa chiese 12 anni di reclusione, dopo aver riqualificato il reato in violenza sessuale, aggravata dalla relazione di parentela e dall’età della vittima.
I fatti risalgono alla primavera del 2020 e gli abusi sessuali si sarebbero consumati tra le mura domestiche.

Stando alle ipotesi accusatorie, approfittando dell’assenza della compagna, il patrigno avrebbe molestato l’allora adolescente in diverse occasioni, baciandola sulle labbra e palpeggiandola. In particolare, nel corso dell’ultimo episodio di violenza, il patrigno avrebbe indotto la ragazzina ad avere un rapporto sessuale. A denunciare quanto accaduto la madre della minorenne, la quale si rivolse alle forze dell’ordine dopo aver scoperto tutto, sporgendo una denuncia contro l’ex convivente.

Dunque, secondo il quadro indiziario, formulato dalla Procura, la posizione dell’uomo si sarebbe ulteriormente aggravata, considerate le condizioni di inferiorità psichica, vista la differenza d’età e il vincolo familiare, e per aver commesso tale reato ai danni della giovane, la quale all’epoca non aveva neanche 18 anni. Nel corso del primo procedimento il collegio del Tribunale di Viterbo, presieduto dal giudice Eugenio Turco, affidò a un perito l’analisi di reperti posti sotto sequestro e delle tracce di dna.

La perizia commissionata al fine di verificare la presenza di tracce biologiche del quarantenne su alcuni indumenti e su altri materiali requisiti, e volta a stabilire se fossero o meno riconducibili all’accusato, diede esito positivo, secondo la valutazione dello specialista scelto dal terzetto collegiale. Quindi l’uomo, che aveva prestato il proprio consenso a sottoporsi al tampone salivare, sarebbe stato incastrato dai riscontri emersi dall’accertamento.